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Great Western Trail and The Art of the Brick

Oggi sono finalmente riuscito a visitare The Art of the Brick.  Nathan Sawaya non ha fatto nulla di diverso da ciò che fa qualsiasi bambino lasciato solo con dei LEGO: si è divertito a creare. Ha preso dei semplici e classici mattoncini colorati e ha creato qualcosa di bello, e di nuovo. 

Mentre guardavo la mostra, mi è tornata in mente la prima partita, giocata ieri sera, a Great Western Trail e l’ottima impressione che mi è rimasta.

Great Western Trail (Alexander Pfister, 2016) è un gioco da avere assolutamente nella propria ludoteca che merita di essere giocato, almeno una volta.  Le regole sono semplici: al proprio turno un giocatore muove il suo cowboy verso Kansas City, poi effettua almeno un’azione principale oppure un’azione bonus, infine pesca carte dal proprio mazzo per ripristinare la mano. That’s all. Tre blocchi base per delimitare il perimetro di azione; ci sono poi dei semplici “mattoncini” che, collegati insieme, danno struttura, corpo e benzina al motore di gioco.

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Le azioni sono tutte “intuitive” e permettono di assumere lavoratori, costruire (o migliorare) edifici,  acquistare e vendere capi di bestiame, progredire nello sviluppo della ferrovia, eliminare pericoli dal percorso, commerciare con gli indiani, ecc,  permettono di modificare “lo stato” dei principali elementi comuni: mappa di gioco, mercato dei lavoratori, mercato dei bovini, tracciato della ferrovia (indirettamente si agisce anche sulla propria plancia personale).

Mi piace molto il modo in cui Pfister (che ho già adorato in Mombasa) utilizza alcuni mattoncini “classici”. Ecco alcuni punti che ho trovato interessanti.

L’utilizzo del deck building come meccanica principale per la gestione delle “bovorisorse” è molto particolare: nel gioco i diversi tipi di bovini equivalgono a diversi tipi di risorse che possono essere acquistati e “trasformati” con costi (e rendimenti) differenti, e che vengono conservati nel mazzo personale.

La scelta di non suddividere il gioco in “round”, dà la sensazione di stare partecipando ad una vera e propria “corsa allo sviluppo”: i turni dei giocatori si susseguono in modo “fluido” e obbligano a mantenere un focus costante sul gioco. L’unico automatismo presente, l’arrivo di un giocatore a Kansas City, permettere di attivare in modo molto elegante  una fase di “ripristino” di alcuni elementi di gioco comuni.

La plancia personale serve a gestire lo “sviluppo tecnologico”, rappresentato dalle azioni bonus: in alcuni casi possono essere scelte come “alternative” alle azioni principali, in altri sono le uniche che possono essere attivate. Durante il progredire del gioco, man mano che aumentano gli edifici dei giocatori avversari (e quindi le distanze), diventa sempre più frequente doversi servire di queste azioni individuali.

Come sempre, una partita non permette analisi troppo approfondite. Tuttavia il gioco mi è piaciuto, molto. Pur trovando alcuni elementi “rassicuranti”, forse perché più classici (la meccanica di costruzione degli edifici, il deck building, ecc), il mix finale risulta avere una discreta “tensione” che lascia con la voglia di rigiocarci, anche solo per il piacere di provare nuove strategie.

Il titolo è già entrato nella mia ludoteca!

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