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[my2cents] Il GO, la vita, l’universo e tutto il resto

 

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Meglio mettere subito le mani avanti: conosco il gioco del GO ma non so giocare a GO. Ci ho giocato per un paio di anni, in modo svogliato e senza versare sudore e sangue: sul mio goban, al massimo, ci potete trovare tracce di birra. Mai potrei affermare di “saper giocare a GO”! sarebbe come arrivare a Santiago partendo da Melide e affermare di “avere fatto il cammino di Santiago”; sarebbe come fare una corsetta di un paio di chilometri e definirsi un maratoneta. Nonostante ciò, voglio parlare un po’ di questo splendido gioco.

Il mio incontro con questo gioco fu casuale e legato ad un’altra passione, i fumetti. Nel 2008 il mio pusher abituale mi propose qualcosa di diverso dal solito,  uno shonen manga che parlava del gioco del GO: Hikaru  no go. Poco tempo dopo mi ritrovai tra le mani un volantino del Club di GO della mia città. Grandissimo stupore: anche in Italia esistevano dei giocatori di GO! non solo: nel giro di un paio di settimane sarebbe anche partito un “corso base”. Ovviamente partecipai e fu come riscoprire nuovamente l’integrale di Riemann su domini tridimensionali: nulla fu più come prima.

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Nonostante esista da prima della Chiesa cattolica, il gioco del GO rimane un gioco estremamente “moderno”: pochissime regole, materiali semplicissimi, complessità vertiginosa; al proprio turno un giocatore può scegliere tra due sole azioni: posare una pietra (pedina) sull’intersezione di due linee, oppure passare. Tertium non datur. L’obiettivo finale è di avere, una volta sepolti i caduti,  un territorio maggiore di quello dell’avversario.

Due elementi di questo gioco astratto mi colpirono profondamente. Il primo è il modo in cui termina la partita: con un “accordo” tra i giocatori che reputano di non poter fare nulla di più. Se un giocatore “passa” e l’altro continua a giocare, il primo giocatore ha sempre la possibilità di “rispondere” oppure continuare a “passare”; quando entrambi “passano”, in sequenza, la partita è finita e si calcola il punteggio.

Il secondo aspetto che voglio evidenziare è il modo in cui si arriva alla vittoria. Nel GO, come nella vita,  per vincere non occorre distruggere o annientare l’avversario: basta fare un po’ meglio, basta avere un punto in più.  Il gioco ci spinge a collegare le nostre singole pietre per creare gruppi più  efficaci, capaci di sopravvivere agli attacchi avversari. Vita e morte sono sempre presenti, spesso occorre sacrificare qualcosa per  ottenere un vantaggio più grande. La vastità del piano di gioco permette di ridefinire l’applicazione del concetto di “dimensione tattica”, chiaramente distinta dalla profondità “strategica”; i quattro angoli, le estensioni su bordi, il centro del goban, hanno importanza, e pesi, differenti in funzione alla fase di gioco nella quale vengono valutati (apertura, medio gioco oppure chiusura).

Per vincere, dicevo, basta fare un punto in più dell’avversario, eppure le decisioni da prendere sono innumerevoli e la tensione è sempre elevata; nel gioco del GO non si può “avere tutto”: le risorse sono limitate, occorre “cedere qualcosa” da un parte per “consolidare” un risultato parziale in un’altra, sacrificare un gruppo hic et nunc  per riceverne beneficio tra dieci mosse. Il GO non si basa sull’annichilimento dell’avversario e la vittoria non si conquista approfittando della sua debolezza, perché ciò che conta veramente è combattere ad armi pari, rispettare la dignità dell’avversario ed evitare, in ogni modo, violenza e scortesia; ciò non toglie che qualche giocatore, durante una partita, possa agire questi comportamenti discutibili (forse gli appartengono anche nella sua quotidianità) ma non è il gioco a richiederlo, è lui che è semplicemente uno stronzo.

Mi piacerebbe molto riprendere a giocare a GO, penso che sarebbe tempo ben speso. Sicuramente, a tempo debito, proverò a farlo conoscere anche a mio figlio.

Per aspera ad astra.

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